Cavalieri erranti della libertà di Agnieszka Kaczyńska

di Agnieszka Kaczyńska

In qualunque parte d’Europa
la libertà è conculcata e si lotta per essa,
si combatte per la patria
e tutti debbono partecipare alla battaglia.
A. Mickiewicz, “Il Libro della nazione polacca e dei pellegrini polacchi”

L’anno 2011 è particolare per gli italiani: celebrano il 150° anniversario dell’unità della loro patria. È particolare non solo per gli italiani ma anche per noi polacchi perché, come disse un grande scrittore polacco Henryk Sienkiewicz, “ogni uomo ha due patrie: la prima la sua propria e l’altra l’Italia […], tutti sono se non i figli, almeno i nipoti dell’Italia”. Questo eccezionale anniversario ci offre una buona occasione per ricordare quella stretta fratellanza d’armi e di idee fra l’Italia e la Polonia durante il Risorgimento italiano. Nel 1795 la Polonia, smembrata dalle potenze europee: Russia, Prussia e Austria, sparì totalmente dalla carta politica del mondo. Privi della loro patria i polacchi cercavano rifugio in altri paesi europei. Molti di loro lo trovarono in Italia, sempre molto vicina alla nazione polacca per i legami che da secoli univano due paesi.

Anche la terra italiana non era libera dal dominio straniero. Lo stesso obiettivo accomunò entrambi le nazioni; d’ora in poi i polacchi avrebbero accompagnato gli italiani alle eroiche lotte risorgimentali combattute in nome dell’indipendenza nazionale. Avrebbero partecipato a tutti i moti rivoluzionari, portando aiuto agli italiani nella lotta contro il nemico comune – l’impero austriaco. Amavano l’Italia come seconda patria e volevano vederla unita e libera, lo stesso destino desideravano per la Polonia, nella profonda convinzione che “l’avvenire del mondo è nell’alleanza dei popoli liberi”.

Nel gennaio del 1797, sulla base di un accordo con il governo provvisorio della Repubblica Lombarda, nacquero le Legioni polacche in Italia. Le Legioni furono opera dei patrioti polacchi come il generale Jan Henryk Dąbrowski, Józef Wybicki, autore della famosa “Mazurka di Dąbrowski”, inno nazionale polacco, il generale Karol Kniaziewicz, il generale Antoni Amilkar Kosiński. Da allora i polacchi sono presenti su quasi tutti i campi di battaglia per combattere il nemico comune, l’Austria. Lottando per la propria indipendenza, combattevano, allo stesso tempo, per la libertà d’Italia, nello spirito dello slogan scritto sulle controspalline “Gli uomini liberi sono fratelli”.

il generale Dąbrowski

I legionari partecipavano, al fianco dei francesi, alle battaglie contro le forze imperiali in Italia. Grazie ai reparti polacchi comandati dal generale Karol Kniaziewicz, che combattevano coraggiosamente a Civita Castellana nel dicembre del 1798, i napoletani furono costretti a ritirarsi da Roma. Nelle battaglie di Magnano, sotto le mura di Verona e di Legnano contro gli austriaci i polacchi subirono perdite eccezionalmente gravi: circa 1750 uomini tra morti, feriti e prigionieri. Un destino crudele toccò ai legionari polacchi partecipanti alla difesa della piazzaforte di Mantova – il comandante la sottomise agli austriaci e lasciò la città con le truppe francesi, consegnando i legionari nelle mani del nemico. I polacchi furono incorporati a forza nelle truppe austriache. Si salvarono circa 300 soldati. Nella battaglia contro gli eserciti austro-russi al comando del feldmaresciallo Suvorov sul fiume Trebbia, dove le perdite polacche erano anche molto pesanti, fu ferito il generale Dąbrowski. Con la caduta del mito di Napoleone volse alla fine anche l’attività delle Legioni polacche. Bisogna però dire che le Legioni non sempre erano utilizzate in modo conforme all’idea che stava alla base della loro nascita. Molto spesso erano sfruttate per aumentare la dipendenza dei territori italiani dalla Francia. Invece di combattere per la libertà dovevano reprimere i tumulti della popolazione insoddisfatta delle azioni dei francesi. Aiutarono l’esercito francese a soffocare l’insurrezione a Verona nella primavera del 1797, poi parteciparono al blocco di Venezia e furono testimoni della caduta della Repubblica. Oltre 6000 soldati polacchi furono spediti all’isola di Santo Domingo (Haiti) nei Caraibi per restaurare la schiavitù e la dominazione coloniale dei francesi. Furono decimati da combattimenti pesanti e da malattie. Circa 300 soldati tornarono in patria. Questa è la parte più tragica della lunga storia delle truppe polacche all’estero nell’epoca napoleonica.

All’epoca della Restaurazione (1815-1830) non si riuscì a soffocare, né in Italia né in Polonia, il sempre crescente desiderio di libertà e d’indipendenza. Nonostante che, dopo il Congresso di Vienna, le due nazioni si fossero trovate in condizioni politiche molto simili, non c’era una collaborazione su larga scala. L’azione politica dei due paesi andava in direzioni diverse: per i polacchi il problema principale era la dominazione russa, la politica italiana invece si dirigeva contro l’Austria. Solo le rivoluzioni del 1830-1831 avrebbero  portato essenziali cambiamenti nelle relazioni tra i due paesi, rendendo possibile la lotta comune contro i “trattati di Vienna”.

Negli anni della Restaurazione (ma anche negli anni precedenti) sia in Polonia che in Italia si svilupparono le società segrete. Anche se seguivano strade diverse, non mancavano però i rapporti reciproci tra di loro. Le associazioni patriottiche clandestine in Polonia prendevano a modello le organizzazioni italiane. I patrioti polacchi strinsero relazioni con cospiratori italiani tramite vecchi ufficiali napoleonici. I membri della Massoneria Nazionale di Varsavia, organizzazione fondata da Walerian Łukasiński, desideravano andare in aiuto della rivoluzione napoletana del 1820. Un polacco che prese attivamente parte alla rivoluzione napoletana del 1820-1821 fu Onufry Radoński, colonnello dell’esercito napoleonico. Radoński era un caldo fautore dei movimenti carbonari. Tornato in Polonia fu condannato a tre anni di prigione dal governo prussiano. Il caso del colonnello Radoński, anche se non molto frequente in quel periodo, nondimeno dimostra che i rivoluzionari polacchi, vedendo un interesse comune nella lotta, reagivano vivacemente agli avvenimenti politici in Italia.

Nel pantheon degli eroi del Risorgimento italiano un posto importante occupa anche il generale polacco Józef Grabiński, ufficiale delle Legioni polacche del generale Dąbrowski (grazie al suo coraggio i legionari polacchi insieme ai francesi vinsero il nemico austriaco a Castelfranco nel 1805), veterano delle campagne napoleoniche, insignito della croce “virtuti militari”, della Corona di Ferro, cavaliere della Legione d’Onore. Quando nel febbraio del 1831 scoppiò l’insurrezione a Bologna, il generale Grabiński, uomo di sessant’anni, decise di aderire alla corrente rivoluzionaria della sua patria adottiva. Poco prima, nel novembre del 1830, iniziò in Polonia una insurrezione nazionale contro i russi. Il fatto che anche la Polonia combattesse per la libertà avrebbe influito sulla decisione del generale di abbracciare la causa degli insorti bolognesi. Fu nominato capo del Comitato Militare di Guerra (Comitato di Tre) insieme a Luigi Barbieri ed Emilio Gandolfi; nello stesso tempo fu promosso al grado di generale di divisione. I bolognesi contavano molto sull’aiuto francese e Grabiński manteneva i contatti con il generale Marie-Joseph Lafayette, considerato il capo della lotta contro i reazionari. Essendo l’ufficiale più esperto e più alto di grado era previsto che Grabiński assumesse l’incarico di comandante supremo delle forze armate in caso di operazioni belliche (nell’imminenza dello scontro decisivo con gli austriaci il comando supremo sarebbe stato affidato al generale Carlo Zucchi). Rinunciò a qualsiasi ricompensa perché desiderava servire disinteressatamente l’idea della libertà italiana. Subito si mise a formare i reparti di linea con numerosi volontari. Mancavano però denaro, divise, armi, munizioni. Il generale Pietro Armandi, ministro della Guerra e della Marina nel nuovo Governo delle Provincie Unite Italiane, affidò a Grabiński il compito di difesa della linea del Po, sottomettendogli circa la quarta parte dei territori liberati con quasi mezzo milione di abitanti. A Forlì, dove si trovava il quartiere generale, durante la rassegna delle truppe e delle guardie nazionali, Grabiński si rivolse ai soldati con il seguente proclama:

Józef Grabiński

[…] Vi ho chiamati intorno a me, e voi siete venuti. Io son vecchio, ed era gran tempo, che non aveva passato riviste. Soldati! Il vostro contegno militare, il vostro coraggio, mi hanno fatto battere il cuore della prima gioventù. La libertà è tal cosa che ringiovanisce i vecchi, avvalora tutti, anima tutto. Sono polacco; ma da lungo tempo sono Italiano. L’Italia e la Polonia si assomigliano nelle sventure e nel valore. La Polonia ha vinto. L’Italia vincerà anch’essa. E chi non vince al nome di libertà? Per ora siate pronti, siate tranquilli, siate subordinati. Se qualcuno osa marciare contro di noi vi chiamerò all’armi. Il grido di guerra italiano è questo: libertà, o morte! Viva l’Italia! Viva la libertà!

Ma la vittoria, sia della Polonia che dell’Italia, sarebbe arrivata molti anni più tardi. Dopo la caduta di Bologna, Grabiński prese parte alla battaglia di Rimini, comandando l’ala destra dello schieramento difensivo italiano, evitando, con i suoi reparti, l’accerchiamento dei combattenti. Anche se lo scontro alle porte di Rimini finì con il successo degli insorti, la situazione generale costrinse il governo insurrezionale alla capitolazione. Poco dopo Grabiński partì per la Francia dove cercava aiuto del generale La Fayette e del governo francese per gli insorti italiani.

Il nome e i meriti del generale Grabiński sono stati ricordati nel 1961, in occasione del centesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Le autorità di Bologna, per onorare la sua memoria, gli hanno eretto un monumento alla Certosa di Bologna: il monumento lo rappresenta in piedi, in toga romana e corona d’alloro, con la bandiera della libertà in mano. Nel cimitero polacco S. Lazzaro di Savena si trova un busto di marmo del generale in divisa e con le medaglie e una strada di Bologna è stata intitolata a suo nome.

Gli anni 1830-1831, sia in Italia che in Polonia, furono il periodo delle grandi speranze, il periodo delle lotte per l’indipendenza di entrambe le nazioni terminate con una sconfitta schiacciante. La caduta dell’Insurrezione di Novembre in Polonia provocò una diaspora dei più attivi membri della nazione che si recarono prevalentemente in Francia. Lì, nei rifugi per gli esuli politici a Besançon e a Châteauroux, essi incontrarono i patrioti italiani. Miseria e nostalgia per la patria rafforzarono la collaborazione tra gli esuli polacchi e italiani, ma ciò che li univa maggiormente era l’obiettivo comune, il desiderio comune di trovare i mezzi per tirare la patria fuori dalla schiavitù, per ricostruire l’Italia e la Polonia indipendenti e unite. Finalmente sembrò loro di aver trovato tale mezzo: lo slogan dell’aiuto scambievole dei popoli nella lotta per la libertà, proclamato dal più grande poeta romantico polacco Adam Mickiewicz nella sua opera “Il Libro della nazione polacca e dei pellegrini polacchi”, che costituisce il motto di questo lavoro.

Adam Mickiewicz

Quasi tutti gli esuli, sia italiani che polacchi, condividevano questa convinzione e anche Giuseppe Mazzini. Fu proprio lui che si pose l’obiettivo di attuare questo slogan. Voleva assicurare ai rivoluzionari l’aiuto di tutti gli esuli politici, anche polacchi, per il movimento insurrezionale in Italia. Mazzini si rendeva conto del valore dell’aiuto degli ufficiali polacchi nelle lotte italiane per la libertà e della comunanza di idee e tendenze di ambedue le nazioni. Parlava della missione dirigente dei polacchi tra i popoli slavi e degli italiani tra i popoli latini. Si rivolse a Joachim Lelewel, presidente del Comitato degli esuli polacchi a Parigi, con la proposta di stringere collaborazione nella lotta contro l’impero austriaco. In una sua lettera scrisse: “Ormai nulla può spezzare i rapporti che si sono formati tra la Polonia e l’Italia; la prima che si solleverà tenderà le braccia all’altra”.

Per iniziativa di Mazzini i polacchi parteciparono attivamente alla spedizione in Savoia nel gennaio del 1834 contro il re Carlo Alberto. I volontari polacchi costituivano più d’una metà di tutti i partecipanti all’attacco progettato contro la capitale sabauda, Chambery. Era un reparto di ufficiali che abbandonò Besançon nell’aprile del 1833, all’annuncio della rivoluzione di Francoforte, e, quando questa si rivelò una rivolta insignificante, rimasero in Svizzera e strinsero rapporti con gli esuli italiani e con Mazzini. Tra di loro erano: Karol Stolzman, Feliks Nowosielski, Franciszek Gordaszewski, Konstanty Zaleski. A capo della spedizione fu chiamato il generale Girolamo Ramorino, comandante dell’insurrezione polacca del 1830-1831. I polacchi protestarono contro questa scelta, perchè lo consideravano un traditore e uno dei responsabili della sconfitta dell’insurrezione. Aprezzavano invece un altro partecipante all’Insurrezione di Novembre, il generale Giacomo Antonini, italiano di nascita, colonnello dell’ottavo reggimento di linea dell’esercito polacco. I timori dei polacchi si rivelarono giustificati: nominato capo della spedizione, Ramorino la rimandava continuamente, senza mantenere l’impegno di preparare l’azione e di reclutare volontari; durante la spedizione poi faceva di tutto per evitare lo scontro con le truppe sarde e, alla fine, dopo la rivista dei volontari, pronunciato un discorso bellico, lasciò immediatamente il territorio di Savoia e si nascose in Svizzera.

La sconfitta subita in Savoia non affossò i piani di Mazzini, anzi, aumentò ancora di più il suo impegno nell’attività politica. La spedizione, anche se del tutto fallita, fu di grande importanza nella vita di Mazzini e nella vita degli esuli polacchi e costituisce un episodo molto interessante nella storia dei movimenti rivoluzionari della prima metà del XIX secolo. […]

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Agnieszka Kaczyńska, proveniente dall’Università di Varsavia in progetto Erasmus e autrice di questo contributo, ha svolto presso la Biblioteca Casanatense uno stage di tre mesi, durante il quale ha catalogato e studiato una parte del fondo polacco di Artur Wolynski, con particolare attenzione alle stampe, dalla cui raccolta provengono le immagini che illustrano l’editoriale.