Orologi. Degli orologi ad acqua e di altri quadranti

Grande maestro dell’architettura classica, nel De Architectura Vitruvio tratta anche di astronomia, di meccanica, di idraulica, di matematica. Ritiene infatti che, essendo tutte le arti connesse tra loro, per riuscire bene in una qualunque di esse occorra avere una conoscenza, sia pure teorica, delle restanti.
Tra le preziose notizie che corredano il suo trattato, riveste singolare interesse quella relativa all’invenzione dell’orologio ad acqua attribuito a Cesibio di Alessandria, un ingegnere greco che aveva svolto la sua attività soprattutto nel campo delle macchine idrauliche e pneumatiche, presumibilmente nel III secolo a.C.
Prescindendo dalla notizia di Vitruvio, pare tuttavia accertato che i veri inventori dell’orologio ad acqua furono gli Egiziani. Di questi loro strumenti uno, attualmente conservato in un museo del Cairo e di particolare rilevanza, fu rinvenuto in pezzi nel 1904 nel tempio di Ammone a Karnak e si data al 1400 a.C.

Si tratta di una coppa in alabastro con iscrizioni sulla parte esterna e un foro nel fondo: l’angolazione dei lati, di 70° circa, è calcolata in modo da permettere un uguale scorrimento dell’acqua a qualsiasi livello, tenendo conto sia della viscosità dell’acqua stessa, sia della variazione della pressione.
Il foro di sbocco poteva essere in metallo prezioso o costituito da una gemma forata, fissata sulla coppa di alabastro per evitarne l’usura.

Gli Egiziani perfezionarono sempre più la tecnica di questi orologi ad acqua un altro dei quali, rinvenuto nel tempio di Horus a Edfu, è presumibilmente posteriore di circa un millennio rispetto a quello di Karnak.
I Greci usarono orologi ad acqua simili a quello di Karnak per calcolare la durata delle arringhe nei tribunali e uno di questi, scoperto nell’Agorà di Atene, misurava un ciclo di sei minuti.
Dopo la distruzione della città nel 200 a.C. a opera di Filippo V di Macedonia prima e di Silla poi, durante la guerra mitridatica, ebbe inizio la tranquillità della pax romana e molte costruzioni romane, tuttora abbastanza ben conservate nella regione a nord dell’Acropoli, le conferirono nuovo splendore.

La prima fra queste fu il propileo dorico, innalzato in onore di Atena Archegetis con i doni fatti alla città da Cesare e da Augusto, più tardi incorporato nel Ginnasio di Adriano.
Proprio a nord della loggia di Atena Archegetis si può ammirare, quasi intatto, il monumentale orologio costruito nel I secolo a.C. da Andronico Cirreste, situato nella Torre dei Venti (Varrone, De Re Rustica, III, 5). E un ottagono in marmo pantelico, che si eleva su tre gradini ed è coperto da un tetto circolare a piramide.
Due piccoli vestiboli e alcune colonne corinzie scanalate si trovano davanti a due porte costruite per poter entrare e uscire passando davanti all’orologio idraulico, situato nell’interno e regolato dall’acqua che affluiva da un deposito cilindrico posto in una torre rotonda sul retro della facciata sud della Torre dei Venti.

Secondo Cicerone, Pompeo riportò da una campagna in Oriente uno di questi congegni che, per la sua precisione, venne usato, analogamente a quanto accadeva presso i Greci, per stabilire un limite ai discorsi degli oratori. Si pensa che anche Giulio Cesare, durante la spedizione in Britannia del 55 a.C., abbia fatto uso di un orologio ad acqua, che gli permise di osservare che in quelle regioni le notti estive erano più brevi “quam in continente” (De Bello Gallico, V, 13).

Torniamo ora a Vitruvio. Nel capitolo 8 del libro IX, lo scrittore prende in esame gli orologi ad acqua, soffermandosi per primo su quello di Cesibio e raccontando del modo in cui lo stesso Cesibio giunse alla scoperta dei principi che poi applicò nella costruzione delle macchine idrauliche.
Così Vitruvio spiega il modo di costruire gli orologi ad acqua: “Si stabilisce un buco in un pezzo d’oro o in una gemma traforata (perché queste materie non si logorano col passaggio dell’acqua) attraverso il quale l’acqua, uscendo sempre ugualmente, solleva un sughero o timpano sul quale è fissata una riga formata con denti uguali a quelli di una ruota versatile, i quali denti, spingendosi l’un contro l’altro, fanno muovere e girare lentamente la ruota.

Gli spazi delle ore sono descritti sopra una colonna o pilastro e vengono additati in diem totum con una bacchetta da una statuetta che si alza dal basso. La brevità o la lunghezza di queste in ciascun giorno e mese viene regolata da cunei, che escono più in fuori o entrano più in dentro. Questi cunei, chiamati anche mete, sono coni troncati, uno solido e l’altro cavo, lavorati in modo che l’uno possa entrare dentro l’altro: allentandoli o stringendoli con uno stesso regoletto, cade nella vasca una maggiore o minore quantità di acqua”. Completano la descrizione le regole necessarie per costruire gli orologi ad acqua d’inverno, chiamati anaforici, e per somministrare l’acqua in modo che sia debitamente regolata.

Nelle clessidre, diverse nella struttura, ma uguali nel meccanismo, le ore si misuravano attraverso il tempo impiegato da una certa quantità di acqua per passare da un luogo all’altro.
L’orologio ad acqua risultava peraltro impreciso per due motivi: il primo perché, essendo l’acqua soggetta a evaporazione, diminuiva gradatamente di volume e a lungo andare diventava melmosa, non potendosi distillare; il secondo perché, in base ad una legge idrodinamica, secondo la quale col discendere della superficie dell’acqua diminuisce la pressione esercitata dal liquido sul fondo del recipiente, si impediva che l’afflusso si compisse con velocità costante.

Capolavoro dei tecnici alessandrini era considerato l’orologio monumentale di Gaza, situato nella piazza del mercato su una parete semicilindrica, che nascondeva il meccanismo idraulico.
In alto appariva una gorgone con gli occhi roteanti; in basso una figura di Helios passava attraverso dodici porte illuminate di notte, che contrassegnavano le dodici ore. Allo scoccare di queste, da una delle porte usciva Eracle, con l’attributo di una delle dodici fatiche, per essere incoronato da un’aquila; altre statue, pure raffiguranti Eracle, si trovavano in tre edicole e l’eroe, in quella di mezzo, segnava le ore battendo la clava su una pelle di leone bronzea.
Procopio, capo della scuola di Gaza agl’inizi del VI secolo, dedica la sesta ekphrasis all’arte e alla meccanica antica, descrivendovi in maniera particolareggiata e suggestiva l’orologio in questione. […]

Nel 1673, Claude Perrault, architetto, fisico, naturalista, membro dell’Académie Royale des Sciences di Parigi, tradusse il De Architectura di Vitruvio, mettendo in evidenza l’importanza dell’acqua che, normalmente, viene usata per imprimere il movimento alle macchine.
Nell’opera Oeuvres diverses de Physique et de Mechanique Perrault tratta della nuova invenzione dell’orologio a pendolo che funziona ad acqua. La descrizione di questo meccanismo è molto precisa e dettagliata: vi si dimostra, ancora una volta, che il fluire continuo e regolare dell’acqua produce un effetto identico a quello che hanno le molle e i contrappesi sugli altri pendoli.

In Italia, per parlare nuovamente degli orologi ad acqua (apprezzatissimi fin dall’antichità e per i quali i Romani stessi avevano coniato il termine horologium, parola diffusasi ben presto in tutte le regioni d’Europa che fecero parte dell’impero romano), occorre giungere alla seconda metà dell’Ottocento.
E’ infatti del 1867 l’invenzione dell’idrocronometro, dovuta al padre domenicano Giovanni Battista Embriaco, che attese ai suoi studi di meccanica applicata all’orologeria nella solitudine del convento della Minerva.
Questo strumento (che nell’Esposizione Universale di Parigi del 1866 fu giudicato degno di premio, sebbene allora fosse senza soneria) fu poi, una volta perfezionato e provvisto di una grande soneria, presentato all’ Esposizione Nazionale di Milano del 1881.
L’orologio, eseguito nel laboratorio meccanico di orologeria dai fratelli Oranaglia, si trova sull’isoletta centrale di un laghetto artificiale del Pincio, alimentato dall’acqua Marcia, che scorre in più rigagnoli e cascatelle da una roccia: si tratta di uno degli ornamenti con cui il Municipio romano volle abbellire la celebre passeggiata.

Nell’idrocronometro del padre Embriaco, da non confondersi con le clessidre, l’acqua esplica l’ufficio di vero motore di una macchina d’orologeria, semplice ma esatta, oltreché di un’ancora.
Quest’ultima è collocata tra due molle parallele al pendolo regolatore dell’orologio le quali, ad ogni minuto secondo, sono alternativamente sollevate dall’ancora stessa. La caduta delle molle è sempre uguale, qualunque sia la quantità dell’acqua che fa muovere la barchetta, e ciò provoca un perfetto isocronismo nelle oscillazioni del pendolo, che non è messo in movimento dall’acqua, bensì dalle due molle.

L’acqua nel frattempo si scarica ad ogni oscillazione del pendolo da ciascun scompartimento della barchetta, cade alternativamente su due grossi gigli di bronzo posti al di sotto, che formano una specie di bilanciere, e li fa oscillare con moto sincrono a quello del pendolo. Da una delle estremità dell’asse di questi gigli parte un’asta, che trasmette il movimento alla macchina oraria e fa segnare i minuti, le ore e i quarti sopra quattro grandi mostre o quadranti.

L’acqua, indispensabile alla messa in moto dell’orologio, si riversa in un recipiente sottostante, lavorato a forma di canestro, e lo riempie ogni quarto d’ora. Il canestro, sospeso mediante due catene di ottone all’asse di una ruota, presenta dodici denti da una parte e tre dall’altra: denti che servono a far alzare i martelli che suonano le ore e i quarti. A ogni quarto d’ora il canestro si riempie d’acqua, scende col proprio peso e mette in movimento la ruota della suoneria, congegnata con estrema semplicità.
Una volta giunto sul fondo, lo stesso canestro si vuota mediante un sifone e risale al suo posto per riempirsi nuovamente.
L’idrocronometro ora descritto è collocato in una specie di torre di ferro fuso, costruita su disegno dell’architetto municipale Herzog, il quale volle rappresentare un rustico intreccio di tronchi e di viticci disposti in modo da lasciar vedere, dietro le quattro grandi lastre di cristallo, il gioco dell’acqua e il movimento di ogni singola parte del congegno.

Sull’idrocronometro del Pincio, tutti possono leggere il nome di padre Embriaco, inciso per ordine del Municipio romano a riconoscimento di un ingegno versatile che, all’ombra del chiostro e nel silenzio di una cella, promosse e coltivò lo studio delle scienze fisiche e meccaniche.
Ma Roma è città colma di fascino, dai mille angoli sconosciuti, che si scopre poco a poco: quando si volta in una piazzetta, quando si cammina in una delle tante strade del centro storico, quando si va a curiosare fra i portoni.
E proprio in via del Gesù, al numero civico 62, sulla parete di fondo del cortile del palazzo Berardi, oggi proprietà condominiale, è possibile ammirare una fontana con un nuovo orologio ad acqua, ancora una volta ideato da padre G.B. Embriaco e secondo, a Roma, dopo quello più noto del Pincio.
L’orologio si trova all’interno di una nicchia a conchiglia, poggia sul fondo di una fontanina a due invasi, con una piccola foca immersa nell’acqua, e lavora su una sola facciata. Intorno alla nicchia, è possibile ammirare una cornice con quattro cariatidi, su cui poggiano due busti di marmo, ai lati dell’orologio.
Un terzo orologio ad acqua, simile ai due precedenti e realizzato sempre da padre Embriaco, si trovava in un cortile dell’ex-Ministero delle Finanze, oggi del Tesoro.

Per gentile disponibilità di alcuni funzionari, si è appreso che, già nel 1965, questo giardino era stato sterrato per la costruzione della centrale termica e che durante i lavori, eseguiti dal Genio Civile, l’orologio era stato asportato e da allora (purtroppo!) non se ne ha più alcuna notizia.

Gli idrocronometri di padre Embriaco possono considerarsi senz’altro, per la loro semplicità ed esattezza, fra le invenzioni più belle, possedendo infatti la singolare prerogativa di non aver mai bisogno di essere caricati: il flusso dell’acqua, regolare e costante, provvede infatti al compito necessario.

Le immagini che illustrano l’editoriale sono tratte da:
Giovanni Battista Piranesi, Diverse maniere di adornare i camini ed ogni altra parte degli edifizi… In Roma. Generoso Salomoni, 1769
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