di Iolanda Olivieri
Un libro di botanica romanzata dell’800
Dopo il lungo inverno questo per i nostri navigatori è l’augurio di una tiepida primavera, lieve come l’opera da cui sono tratte le immagini che osservate, deliziose, bizzarre, tipicamente ottocentesche.
Les fleures animées sono stati acquistati sul mercato antiquario nel 1996 ad arricchire il patrimonio casanatense di erbari, incisioni ed acquerelli a soggetto floreale. Opera edita a Bruxelles nel 1852 da A. Delavau con introduzione di Alphonse Karr e testo di Taxile Delord, ha il suo maggior pregio nelle 54 litografie acquerellate di Grandville, pseudonimo di Jean-Ignace-Isidore Gèrard (Nancy 1803 – Vanves 1847), illustratore dalla fantasia capricciosa e di grande successo.
Il contenuto è una delicata favola che narra la rivolta dei fiori contro la loro regina, la Fata dei Fiori, offrendo il pretesto per tanti brevi racconti, ciascuno dei quali vuole tratteggiare umanizzandolo il carattere del fiore protagonista. Segue poi un breve trattato di botanica, l’indispensabile “trappola dotta” che, come scherzosamente avverte Karr, le graziose lettrici non dovrebbero leggere, al fine di affrancarsi dai noiosi, sapienti botanici che non amano le donne.
Questi infatti non amano le donne, né tanto meno i fiori, che strappano dalla loro sede per assassinarli, appiattirli, schiacciarli, seccarli, privarli di profumo e colori, per scrivere, su quei cimiteri che chiamano erbari, ridicoli e pretenziosi epitaffi latini. Così anche i fiori diventano prima brutti ed infine noiosi.
Purtroppo in Francia, aggiunge, si ama il piacere, ma si rispetta, si venera la noia e si intitolano piazze in onore degli autori di grossi tomi noiosi, imprigionati prima in magnifiche legature e infine nelle biblioteche.
Les fleurs animées, antiporta
Certamente il simpatico Monsieur Karr ha un conto in sospeso con i botanici, egli che si definisce un giardiniere che ama tutti i fiori e che ha scritto molte pagine contro coloro che puristicamente sostengono che la rosa centifolia è una mostruosità, perché esiste solo la rosa semplice, la rosa canina. E non apprezza molto neanche quelli che chiama “amatori”, che ammirano solo i fiori rari e non per guardarli ed aspirarne il profumo, ma per ostentarli, perché la loro principale gioia non è quella di possedere un fiore, ma quella di sapere che gli altri non lo posseggono, non curandosi quindi minimamente degli stupendi fiori che Dio ha fatto comuni, come comuni ha fatto il cielo e il sole.E così la povera rosa centifolia non è accettata neanche nelle collezioni degli amatori, perché divenuta comune, un po’ volgare, non è più un fiore, è un bouquet. L’orgoglio dell’appassionato è invece quel prezioso roseto che ha ottenuto cinque anni fa ma che non ha mai voluto fiorire: malgrado tutti i suoi amici abbiano fatto carte false per averne un innesto egli ha tenuto duro e ne è restato il solo possessore. Però non tutti i floricoltori sono così, ce ne sono di quelli che traggono una gioia semplice e tranquilla da tutti i fiori che li onorano fiorendo nel loro piccolo giardino. Altri ancora li amano per il legame con quei ricordi che sono nascosti nelle corolle come le amadriadi si nascondono sotto la corteccia delle querce. Ed ecco che ricordano che i lillà erano in fiore la prima volta che l’hanno incontrata; che erano seduti insieme sotto un caprifoglio, al tramonto, quando si sono scambiati quelle dolci promesse che uno solo, ahimè, ha mantenuto; che, volendo cogliere per lei un ramo di biancospino, si erano graffiati una mano e lei aveva pulito la ferita con un taffettà d’Inghilterra, accostato più volte alle rosee labbra. E così ad ogni primavera i ricordi rinascono ed appassiscono come i fiori.Ma viene il momento in cui cominciamo a chiamare illusioni questi freschi sentimenti giovanili, il momento in cui crediamo di divenire saggi ed invece cominciamo ad essere morti, oppure, più semplicemente, siamo in preda ad altre illusioni. E’ questo però il momento in cui veramente cominciamo ad amare i fiori; li amiamo soltanto per loro stessi, per il loro splendore, per il loro profumo ed anche per le fatiche che ci costano. Scopriamo quindi che tutte le ricchezze dei ricchi non sono che un’imitazione più o meno imperfetta delle ricchezze dei poveri: i diamanti di cui siamo così fieri vorrebbero ben somigliare alle gocce di rugiada al sorgere del sole, i fiori somigliano alle nostre pietre preziose, ma in più hanno vita e profumo. Scopriamo che i fiori affascinanti della vita ci hanno portato anche frutti tristi, promesse divenute tradimenti, speranze svanite. Ed allora forse, chiusi tra le mura del nostro giardino, fra i nostri amati fiori, penseremo che nulla di simile abbiamo da temere da questa nostra ennesima passione: mai ai rosei fiori di pesco seguiranno i frutti velenosi della datura; quando l’ardente canicola farà appassire le corolle, noi sapremo con certezza che l’anno successivo torneranno fedelmente nello stesso punto del giardino a donarci nuovamente la gioia della loro bellezza e del loro profumo.
Questa la lunga introduzione di Monsieur Karr ed ecco la favola di Monsieur Delord.
Se i sapienti e gli studiosi di cose antiche hanno a lungo disquisito e forse sono riusciti a fissare la sede del giardino dell’Eden, nessuno di loro si è minimamente occupato di localizzare il palazzo della Fata dei Fiori, quindi si possono fare solo semplici congetture: è nel reame del Kàshmir? A sud-sud-est di Dheli? Su un altipiano dell’Himalaya? Al centro dell’isola di Giava? O è in mezzo ad una immensa e intricata foresta, protetto dagli sguardi indiscreti e dalle fastidiose ricerche degli studiosi? Il narratore in realtà sa bene dov’è questa felice contrada, ma si guarda dal dircelo e ci guida sin là per mano, con gli occhi bendati da un fazzoletto di batista. Ed ecco che sentiamo un’aria più leggera e soave, intuiamo una luminescenza più viva e il nostro viaggio è terminato: siamo nel giardino della Fata, trionfo di fiori e piante provenienti da ogni dove e da tutti i climi; gli smaglianti fiori tropicali accanto alla violetta, l’aloe accanto alla pervinca, palmizi ed acacie, gelsomini, rose, gigli, garofani, tutti gli uni accanto agli altri vivono, respirano, chiacchierano, confondono i loro odori. E intorno piccoli ruscelli dai capricciosi meandri che catturano e riflettono la luce come diamanti; e farfalle di tutte le forme e di tutti i colori si incrociano, si schivano, si inseguono, planano, si posano o si librano sulle loro ali di ametista, di smeraldo, di turchese, di zaffiro e, come in un concerto inteso in sogno, su tutto la brezza sospira, mormora e canta la sua melodia ad ogni fiore.Il palazzo della Fata è degno di questa meravigliosa cornice; un genio suo amico ha raccolto tutti quei fili d’argento e d’oro che volteggiano da una pianta all’altra nelle prime mattinate di primavera e li ha intrecciati in una filigrana incantata con la quale ha costruito il castello che ha coperto con tegole di foglie di rosa. Ma la Fata passa poco tempo al castello perché è una regina coscienziosa e ama trascorrere il tempo in mezzo ai suoi sudditi, attenta al loro benessere. Si può essere infelici essendo un fiore? Parrebbe impossibile, eppure è proprio così e la nostra Fata sta per farne l’esperienza.In una bella serata di primavera, mollemente sdraiata nella sua amaca di liane intrecciate, contemplava pigramente quei fiori misteriosi chiamati stelle, quando le sembrò di udire un lontano e confuso brusio e, sollevatasi, vide avanzarsi una lunga processione di fiori di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutte le specie. Stupita, vide uscire dal gruppo l’elleboro, fine oratore, che, presentati i suoi omaggi, disse che erano migliaia di anni che gli uomini si servivano dei fiori per metafore e poesie, che prestavano loro i propri difetti e le proprie qualità, e che ora i fiori, annoiati della propria vita, chiedevano il permesso di rivestire sembianze umane per giudicare loro stessi se quello che là sulla terra si diceva del loro carattere fosse conforme a verità. La Fata non credeva ai propri occhi ed alle proprie orecchie: volevano cambiare un’esistenza simile a quella degli dei per le miserie umane? Possedevano la felicità, potevano adornarsi con diamanti di rugiada, potevano svagarsi con la conversazione dello zefiro, i baci delle farfalle potevano farli sognare d’amore! Ma la Bella di notte sbadigliando replicò che la rugiada le faceva venire il raffreddore, la Rosa che i madrigali di Zefiro la facevano addormentare – le ripeteva da mille anni sempre le stesse cose e certamente dei poeti accademici dovevano essere più divertenti – e la sentimentale Pervinca mormorò che non sapeva cosa farsene delle carezze della Farfalla, simbolo dell’egoismo, che non sapeva amare, che trascorreva senza ricordi, senza passato né avvenire, mentre non ci sono che gli uomini che sappiano amare!
La Fata era allibita e si sentiva anche un po’ tradita, ma saggiamente ci pensò sopra un poco e disse: ”Sia come volete: andate sulla terra e vivete la vita degli uomini, ma presto tornerete da me”. La mattina dopo il suo giardino era deserto; un fiore soltanto era restato, la solitaria Erica sempre fiorita, simbolo d’amore eterno, sapeva bene che non c’era posto per lei sulla terra.Ma la Fata non aveva accordato il suo permesso senza un segreto pensiero di vendetta; pur nel suo dolore, anche se non poteva consolarsi di questo abbandono, cercava il modo di giocar loro qualche tiro e quindi disse fra sé: “I fiori sono divenuti delle donne e in quanto tali sono a loro necessarie le attenzioni degli uomini; se io troverò il modo per sottrargliele si disgusteranno ben presto della terra e torneranno da me”. Si ricordò allora di un giovane genio, bello e brillante se mai ve ne fu uno, che all’improvviso aveva rinunciato alla compagnia delle fate per ritirarsi nella sua grotta e dedicarsi completamente al piacere del fumo. Aveva la più bella collezione di pipe che fosse possibile vedere: a volte fumava in una perla, a volte in uno smeraldo sfaccettato, a volte in un guscio d’oro; fumava con aspirazioni sapienti e misurate! E la Fata si disse: ”Che cosa è la donna in Oriente, nei paesi dove si fuma l’oppio? Nient’altro che un giocattolo! Gli uomini, perduti nelle delizie infinite dell’ebrezza, non pensano più alle donne, o se se ne occupano è per farne giocattolo dei loro bizzarri capricci. In Cina per esempio la donna non ha più piedi, il suo incarnato scompare sotto uno strato di biacca, le si radono le sopracciglia, diviene un curioso animale, una immagine da paravento vivente con cui il padrone si diverte fra due estasi … ma l’oppio non è adatto al clima europeo … sostituiamolo con il tabacco e, insegnando agli uomini a fumare, essi faranno come il genio e si allontaneranno dalle donne. Ho trovato la mia vendetta!” E fu inventato il tabacco.
Non si sa in che modo ella riuscisse a strappare alla terra le virtù di questa pianta, forse si servì dell’aiuto degli abitanti di Cuba e di Jean Nicot, ma sicuramente non esiste oggi donna che non abbia a lamentarsi dell’uso del tabacco. Il marito diserta il focolare per andarsene al circolo a fumare, il fidanzato apprezza più il dono di un bel portasigari che del ritratto dell’amata e quando fra due amanti arriva il momento dei rimbrotti la sventurata signora non ha più la risorsa di lunghe recriminazioni e di amare accuse: la si lascerà parlare, la si ascolterà con pazienza e rassegnazione … e ci si accenderà un sigaro. Il tabacco è il dio dell’umanità. Se mai il sogno degli utopisti si potesse realizzare, se le nazioni d’Europa arrivassero finalmente a formare una sola famiglia lo stemma adottato da questa nuova società sarebbe certamente una pianta di tabacco che distende le radici su un mappamondo inquartato di pipe, caricato di sigari su campi di borse da tabacco e narghilè accesi.
Per un momento la Fata credette alla riuscita del suo piano: le donne erano completamente abbandonate, il loro impero aveva cessato d’esistere e qualche marito parlava già di rinchiudere le mogli in un serraglio. Ma queste scongiurarono il disastro e il loro abbattimento non fu di lunga durata perché trovarono ben presto un mezzo per riconquistare l’uomo: le donne si misero a fumare. E la Fata pensò che se voleva arrivare al suo scopo doveva muovere altre pedine.
Ma ciò non fu necessario: fu l’esistenza in forma umana a vendicarla con i suoi pericoli, le sue amarezze e le sue disillusioni. La vanitosa rosa centifolia, amata o disprezzata a seconda delle mode; la bella e fatale camelia dolente vedova di uno sposo suicida per la sua orgogliosa freddezza; il papavero forzosamente snaturato da sereno portatore di sonno a portatore di illusorie visioni; il bucaneve ucciso dalla prima tiepida brezza dopo aver vinto le nevi invernali nell’anelito della primavera; il pisello odoroso, lasciato a boccheggiare di sete soltanto perché grazioso, ma inutile all’ortolano; il cactus la cui esperienza sulla terra poteva tutta riassumersi nell’aver patito tanto il freddo; la dalia, disillusa fioraia di amori menzogneri; il biancospino terrorizzato dalle cesoie che recidevano i suoi giovani rami; la sagittaria che aveva visto i giovani pescatori morire fra le piante acquatiche sedotti dal subdolo canto dell’ondina; la diafana pervinca disseccata in un polverosissimo erbario. Tutti i fiori, infine, decisero che dopo tante odissee l’esperienza era più che bastata e i primi cominciarono a tornare verso il giardino della Fata.
Certamente erano un po’ timorosi: quale accoglienza ella avrebbe loro riservato? Erano partiti suo malgrado, senza volerne ascoltare i saggi avvertimenti. Forse, ritenendoli abbastanza puniti, avrebbe acconsentito a riceverli, ma non osavano suonare per farsi aprire il cancello del giardino. Ma ecco che all’improvviso i battenti si schiusero ed apparve la Fata; i fiori caddero in ginocchio piangendo, ma ella dolcemente li risollevò dicendo: ”Entrate, poveri, venite a riprendere presso di me il posto che non avreste mai dovuto lasciare!” ed inviò sulla terra il suo gentile messaggero, l’uccello dalle piume di turchese, perché guidasse a casa coloro che non trovavano più la strada.
Durante tutta la giornata il cancello si aprì e si chiuse in continuazione ed alla sera solo due o tre ritardatari mancavano all’appello. La regina, leggendo nel loro cuore un sincero rimorso, rinunciò a rimproveri e recriminazioni, anzi organizzò una grande festa di benvenuto, un ballo sontuoso, rischiarato dal volteggiare di migliaia di lucciole e allietato dall’orchestra degli usignuoli del Conservatorio della Fata della Musica, e al quale furono invitate anche tutte le silfidi del vicinato.
Le immagini sono tratte da Les fleures animées di Taxile Delord e Alphonse Karr, con 54 litografie acquerellate da Grandiville, pubblicata a Bruxelles nel 1852 da A. Delavau.